In primo grado la professoressa era stata assolta al termine di un giudizio abbreviato dal Gip del tribunale di Palermo, che ritenne ”che il singolare ‘compito’ assegnato dalla professoressa all’alunno fosse stato motivato – ricostruisce la sentenza – dall’intento dell’insegnante di interrompere, con un intervento tempestivo ed energico, una condotta ‘bullistica”’ dell’alunno, il quale ”aveva tenuto un atteggiamento derisorio ed emarginante” nei confronti di un compagno di classe. Successivamente la Corte d’appello di Palermo aveva dichiarato l’imputata ”colpevole del reato di abuso dei mezzi di disciplina”.
Per la Cassazione, quindi, ”non può ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, distortamente finalizzata a scopi ritenuti educativi: e ciò – rileva la sentenza – sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità , sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà , utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono”.
”La costrizione a scrivere cento volte” la frase, ”lesiva della dignità dell’alunno e umiliante per le modalità di esecuzione”, anziché indurre nell’alunno ”sentimenti di solidarietà verso i soggetti vulnerabili, era obiettivamente idonea a rafforzare nel ragazzo il convincimento che i rapporti relazionali sono regolati dalla forza, quella sua verso i compagni più deboli, quella dell’insegnante verso di lui”.